Osea 6, 4-6; S. Paolo Apostolo ai Romani 13, 9b-14; VANGELO Mt 12, 1-8
Osea, che vive nel secolo ottavo a. C., è testimone di una tragedia che ha coinvolto le tribù del Nord e le tribù del Sud di Israele. Le tribù del Nord, chiamate in questo caso Efraim, desiderose di scrollarsi di dosso il giogo assiro, attaccano le tribù del Sud, abitanti nella Giudea e quindi a Gerusalemme, essendosi già impossessate di città più piccole vicine. Esse immaginano di contrastare così l’impero assiro. Ma il re Acaz, re di Giuda, nonostante l’invito insistente di Isaia di non rivolgersi al re straniero, chiede l’intervento della signoria Assira che arriva velocemente e devasta con brutalità, vandalismi e ferocia tutto il territorio del Nord.
In questo caso, però, travolge anche il Sud di Israel, se non altro facendo pesare l’intervento e il soccorso con pesanti tributi. Di fronte a questa tragedia, finalmente, ci si rende conto che ciò che è avvenuto è causato dalla disobbedienza e dalla infedeltà a Dio. Egli aveva mandato avvisi precisi ma il re e il popolo non hanno voluto ascoltare. A questo punto, però, finalmente, ci si rivolge a Dio dopo la sconfitta, convinti che una conversione rimetterà a posto le cose: di Dio ci si può fidare. “Egli guarisce, Egli fascia le piaghe, Egli ridà la vita in breve tempo (tre giorni)”. La sua presenza e il suo intervento sono garantiti come l’aurora, come la pioggia d’autunno e di primavera: il sole illumina e la pioggia feconda la terra. Questa è la fede che il popolo d’Israele riesce a recuperare nei momenti di difficoltà e di crisi. Ma il Signore risponde attraverso il profeta e usa le stesse immagini ma riducendole: nube nel mattino, e quindi nube che oscura il sole, e rugiada, solo rugiada che svanisce ai primi raggi. Il Signore rimprovera la fragilità e la superficialità del rapporto che il suo popolo ha con Lui. E infatti tutta la religiosità di Israele, che di fronte alla sventura moltiplica i sacrifici di animali e le offerte al tempio, deve rivedere la propria posizione, maturando l’amore e la misericordia, la conoscenza di Dio prima degli olocausti e dei sacrifici. L’ultima frase: “Voglio l’amore, non sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (v 6) è sempre molto presente nell’opera di Gesù, soprattutto nei momenti difficili in cui egli affronta situazioni di discriminazione, di rifiuto delle persone, di giudizi, di opposizione violenta verso coloro che sbagliano. E di fatto Gesù utilizzerà questa frase proprio come risposta allo stupore di scandalo e di recriminazione verso di Lui da parte di cultori della legge, esigenti e fedeli (i farisei). Gesù accetta di mangiare insieme con pubblicani e peccatori, amici di Matteo che Gesù stesso aveva invitato a seguirlo come discepolo (Matteo 9,9-13). E questo crea una opposizione durissima. Gesù conclude: “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”. Questa riflessione tocca tutti i credenti, e quindi anche noi che siamo, spesso, più preoccupati dei gesti di culto e ci confessiamo, ansiosi, per non aver partecipato alla messa la domenica, magari per indisposizione o per difficoltà sopravvenuta. Ma, nel frattempo, non ci preoccupiamo di una verifica sulla conoscenza del Signore, sulla misericordia e sull’amore, E d’altra parte quali reazioni avremmo se Gesù, venendo oggi, andasse a mangiare con coloro che non riscuotono la nostra stima e la nostra simpatia? Ci sentiremmo contenti perché ci fidiamo, comunque di Gesù che porta novità, o lo criticheremmo perché non si è comportato come noi ci saremmo aspettati?