Meditazione 19 marzo 2020

SIRACIDE 44, 23g – 45, 2a. 3d-5d; LETTERA DI s. PAOLO AGLI EBREI Eb 11, 1-2. 7-9. 13a-c. 39 – 12, 2b; VANGELO Lc 2, 41-49

E’ stupenda l’apertura del vangelo di oggi che non disdegna di chiamare Maria e Giuseppe i genitori di Gesù (Lc 2,41). Come sappiamo, i vangeli non ci narrano quasi nulla dei suoi anni a Nazareth. Sappiamo che furono per Gesù gli anni per apprendere dall’uomo tutte le cose umane. Ha imparato a vivere la sua umanità in tutte le sue dimensioni: quella dei bisogni, delle relazioni, del linguaggio umano fatto di parole e di gesti. Ha imparato a vivere sottoponendosi alla gradualità temporale dell’esistenza, ha imparato ad ascoltare, a giocare, a lavorare, a festeggiare, a conoscere e rispettare le leggi religiose del suo popolo ecc. ecc. Insomma, a Nazareth il Signore ha portato avanti la sua piena incarnazione, percorrendo il cammino di una vita umana come tutte le altre. In tal senso, possiamo dire che in Gesù Dio ha sposato tutta la nostra creaturalità, compreso quella così comune e insignificante da non essere mai rilevata nei racconti umani. Il silenzio di Nazareth è anche rivelazione, non solo nascondimento.

Possiamo allora intuire la grande vocazione affidata a Maria e Giuseppe. Essi vivono verso Gesù, pur nella custodia del mistero che li avvolge e coinvolge, un ministero genitoriale pienamente umano, con le sue gioie e le sue fatiche. Il vangelo di oggi evidenzia sapientemente, facendone quasi un contrappunto, la loro umanità davanti all’improvvisa espressione della coscienza divina del ragazzino Gesù. Di ritorno da Gerusalemme per una festa di Pasqua, Maria e Giuseppe non trovano nella carovana di amici e parenti il loro figlio, perciò ritornano a Gerusalemme per cercarlo in un comprensibile crescendo di angoscia. Il ritrovamento avviene dentro il Tempio mentre i presenti maestri di Israele si stupiscono davanti all’intelligenza delle sue domande e risposte. L’episodio segna una svolta: perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?  Luca presenta Gesù come un ragazzino che “sente” la sua chiamata, raccontando questo momento della sua vita come un’evidente anticipazione pasquale. I genitori non compresero queste parole. Credo sia importante un’ultima riflessione su questa incomprensione e sullo stare di Giuseppe e Maria davanti al figlio che gli afferma di dover rispondere al Padre. Se c’è qualcosa che oggi mi sembra necessario e urgente dover rigenerare, è la funzione che ogni famiglia ha nel collaborare con Dio affinché i figli a scoprano la propria strada. Da questa punto di vista il vangelo di oggi è una icona importante. Perché ogni figlio è un dono e un mistero da educare, accompagnare, custodire e incamminare verso la vita, anche se oggi credere in quanto detto non è per niente scontato! Ma viene un tempo, prima o poi, nel quale i genitori entrano in una necessaria crisi, con tanto di inevitabile sofferenza. L’incomprensione della traiettoria di crescita intrapresa dal figlio/a, delle sue scelte opposte alle proprie aspettative, la preoccupazione del futuro che ne deriva, sono tutti elementi umani che possono ricevere luce solo dalla fede in un Padre che chiama tutti all’esistenza, ma soprattutto ad ascoltare ciascuno, nel proprio cuore, la sua chiamata. Ogni dono di Dio, ogni chiamata, ogni segno bello che le cose di Dio possono portare nella nostra vita, vanno sottoposti allo stile di vita di Nazareth. Bisogna gestare ogni cosa pazientemente nel tempo, senza lasciarsi incantare dalla visibilità, dal successo e dall’ansia di una meta da raggiungere. Bisogna imparare da Gesù, Giuseppe e Maria, che lasciano a Dio dare gli appuntamenti fondamentali della vita.