GENESI 37, 2a-b; 39, 1-6b; PROVERBI 27, 23-27b; VANGELO Mc 8, 27-33
Il disegno di Dio agisce attraverso le vicende di uomini concreti e che questo non si concretizza quasi mai in un cammino lineare, ma una strada di costante sorpresa. Giuseppe spogliato della sua libertà e della propria dignità è condotto in Egitto in qualità di schiavo. Su un orizzonte spersonalizzato la persona diventa un puro oggetto. Egli assume i tratti della vittima che, puramente passiva, non fa altro che subire quello che gli altri gli infliggono. Viene venduto ad un notabile egiziano Potifar comandante delle guardie di Faraone. Questi ben presto sa individuare le qualità di Giuseppe tanto che lo eleva o al rango di servitore personale e di maggiordomo della sua casa.
Per la prima volta, l’autore del brano fa intervenire Dio: “Il Signore fu con Giuseppe, così che questi divenne un uomo a cui tutto riusciva”. (39, 2) Nonostante le apparenze Dio è presente nella storia e nella vita del “bambino” minacciato, abbandonato dai fratelli e venduto come schiavo. Questa “riuscita” di Giuseppe non è che l’adempirsi della promessa fatta da Adonai ad Abramo: Giuseppe appare dunque chiaramente come erede dell’elezione e della benedizione di Abramo. Giuseppe sa collocarsi nella nuova situazione con sapienza e non sfruttando la situazione per il suo tornaconto. Ha imparato a stare al suo posto diremmo noi. Invece di riprodurre il gioco ambiguo che era il suo con i suoi fratelli, Giuseppe non cerca di imporsi, di prendere il primo posto, soprattutto nel momento in cui questa possibilità gli verrà subdolamente offerta. E questo è già un primo indizio della sua trasformazione. Accetta consapevolmente i limiti impostigli, e i “limiti” vengono posti in vista di un “bene” in modo che possano instaurarsi relazioni armoniose. Ora “Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto”. Questo dono non richiama solo una dote umana, ma è un segno della grazia di Dio. Ma ogni dono di Dio prima o poi diventa tentazione. Più grande è il dono, il talento, più forte e la seduzione della tentazione. E sempre con lo scopo di impossessarsi del dono, di gestirlo in maniera autonoma, all’interno di una passionalità e del proprio interesse personale. Insomma usare il dono per raggiungere gli scopi prefissati da noi senza il donatore. Dove la tentazione sarà di impegnare il dono non per la gloria di Dio ma per costruirsi un mondo in cui il proprio io sarà l’epicentro delle cose e delle relazioni. Ad un certo punto la moglie di Potifar pone lo sguardo su Giuseppe e vede che è bello e affascinante. Se ne invaghisce. A spingerla c’è di nuovo una bramosia che traduce l’altro in oggetto da sfruttare per il proprio tornaconto. Ma c’è anche un altro aspetto dentro questa tentazione: quella di cedere al rancore che spinge alla vendetta. Escluso da una parte, scatta il meccanismo di unirsi ad un altro per colpire la parte che ci ha tagliati fuori, per dimostrare che si è riusciti, che gli altri devono pentirsi dell’esclusione. Giuseppe nella tentazione combatte, si difende: “come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?. In ultima istanza Giuseppe si appella a Dio. Non tanto per difendere la virtù della castità quanto per ottemperare alla giustizia, alla responsabilità, alla gratitudine verso il padrone. D’altra parte la vera castità è sempre una questione di giustizia e di carità verso il prossimo. Nasce dopo tanto un’etica biblica che non è semplice codifica di comportamenti morali, ma invito ad un comportamento che nasce dalla relazione corretta con Dio, con l’altro e con le cose. Ed è questo il criterio vincente. Tutte le cose stanno in piedi a causa di Dio e niente si può costruire o mantenere senza di lui. Di fronte al rifiuto di Giuseppe per vendetta la donna gli si ritorce contro. Abbandonata nelle mani della moglie di Potifar, la veste di Giuseppe diventa una prova a carico per una falsa accusa. L’odio non è mai molto lontano dall’amore, e il fallimento non è mai molto lontano dal successo. La donna rimane con la veste in mano e dovrà inventare qualcosa, allo stesso modo dei fratelli. Si deve sempre inventare una menzogna, dal momento che il tentatore è il padre della menzogna (Gv 8,44). E l’accusare l’altro, fosse anche il marito, del proprio desiderio colpevole è un trucco vecchio quanto il mondo.